La riscoperta dei grossi mono anni Ottanta

La riscoperta dei grossi mono anni Ottanta
Massimo Clarke
  • di Massimo Clarke
La tecnica dei meravigliosi enduro stradali degli anni Ottanta. Dai primi Yamaha XT, agli Honda XL e ai Suzuki DR, fra i quali il Big 800
  • Massimo Clarke
  • di Massimo Clarke
13 febbraio 2018

Dopo essere stati a lungo grandi protagonisti della scena motociclistica, per un certo periodo i grossi monocilindrici hanno perso i favori del pubblico.
Negli anni Cinquanta contendevano ai bicilindrici il predominio, per quanto riguarda le prestazioni e il fascino esercitato sugli appassionati (e nel 1951 uno di essi ha anche vinto il mondiale nella classe regina). Ben presto però, i motori a due cilindri sono stati portati da 500 a 650 cm3 e si sono posti su di una posizione di superiorità, in quanto a cavalleria.

Nel decennio successivo il declino dei monocilindrici di grossa cilindrata è continuato. Il mercato era in crisi, e chi poteva comprava una 650 o una 750 (nuova classe di riferimento). I mono di 500 cm3 erano ormai riservati a uno zoccolo duro costituito da pochi puristi.
Poi c’è stata la ripresa ed è iniziata l’era delle maximoto, con nuovi, straordinari modelli policilindrici.
All’inizio degli anni Settanta di grossi monocilindrici stradali c’erano solo gli spagnoli Sanglas, autentici dinosauri, e i Ducati, la cui cilindrata non arrivava ai fatidici 500 cm3 e la cui produzione era ormai prossima alla fine. Nel reparto esperienze della Casa bolognese sono stati realizzati alcuni monocilindrici di progettazione completamente nuova, destinati a sostituire i precedenti Scrambler/Desmo/Mark3, ma nessuno di essi è uscito dalla fase di prototipo. Ormai l’azienda stava puntando con decisione sui bicilindrici.

 

La riscoperta del Mono

Si è così creato un vuoto, e per i monocilindrici stradali di grossa cilindrata non si intravvedeva un futuro radioso. L’uscita di scena sembrava completa e senza possibilità di rimedio. E invece le cose sono andate molto diversamente, e mentre si avvicinavano gli anni Ottanta hanno iniziato a diventare popolari e apprezzati gli enduro stradali con motori inizialmente di 500 cm3, e quindi di cilindrata ben maggiore. Sono stati realizzati anche alcuni modelli stradali di impostazione sportiva, che hanno avuto una apprezzabile diffusione in altre nazioni europee (e sono diventati popolarissimi in Giappone), ma che da noi non hanno “sfondato”.


 

Per far cominciare questa nuova era è stata fondamentale la comparsa della Yamaha XT 500, che ha davvero dato il “la” a un fenomeno di dimensioni mondiali. A ciò si aggiunge il fatto che hanno iniziato ad essere molto seguite le maratone africane, cosa che ha contribuito notevolmente al boom delle grosse enduro stradali monocilindriche.
La XT 500, commercializzata in Europa a partire dal 1976, era semplice e robusta. La distribuzione era monoalbero con due valvole, inclinate tra loro di 52°, le misure caratteristiche solo moderatamente superquadre (87 x 84 mm) e la lubrificazione a carter secco. Non veniva impiegato alcun equilibratore dinamico.

Gli altri costruttori sono stati lesti a scendere in campo con realizzazioni di tipo analogo, e alla loro offensiva la stessa Yamaha ha replicato adottando essa pure soluzioni più moderne e raffinate e incrementando la cilindrata del suo mono, che è stata portata dapprima a 550 cm3 e successivamente a 600, con alesaggio cresciuto rispettivamente a 92 e a 95 mm (la corsa di 84 mm rimaneva quella della XT 500). Si trattava di motori totalmente riprogettati, con cilindro inclinato e non più verticale, un albero ausiliario di equilibratura, catena di distribuzione spostata sul lato sinistro e quattro valvole inclinate tra loro di 48°.


 

La Honda ha proposto dapprima la XL 500, dotata di due alberi ausiliari; e nel 1983 ha lanciato un nuovo modello di maggiore cilindrata (XL/XR 600) con quattro valvole radiali, per azionare ciascuna delle quali si impiegavano un bilanciere a dito e uno a due bracci. Il motore era dotato di un albero ausiliario, collocato nella parte anteriore del basamento. In seguito questo monocilindrico, con cilindrata portata a 650 cm3, è stato montato su di un modello più adatto ad impiego decisamente stradale, la Dominator, che ha avuto un grandissimo successo.


 

Il DR Big 750 della Suzuki al suo apparire ha fatto scalpore per la cilindrata inusitata (che in seguito è stata addirittura portata a 800 cm3!). Nel disegno si possono osservare i due alberi ausiliari di equilibratura e l’albero a camme in testa che aziona quattro valvole tramite bilancieri a tre bracci. Questo motore aveva un raffreddamento misto aria-olio
Il DR Big 750 della Suzuki al suo apparire ha fatto scalpore per la cilindrata inusitata (che in seguito è stata addirittura portata a 800 cm3!). Nel disegno si possono osservare i due alberi ausiliari di equilibratura e l’albero a camme in testa che aziona quattro valvole tramite bilancieri a tre bracci. Questo motore aveva un raffreddamento misto aria-olio

La Suzuki ha fatto il suo ingresso nel settore dei grossi monocilindrici con la SP 370, che è stata rapidamente seguita dalla DR 400 e quindi dalla DR 500, apparsa nel 1981.
Notevole diffusione ha avuto la DR 600 (alesaggio e corsa = 94 x 85 mm), entrata in produzione nel 1985. Il suo motore aveva due alberi ausiliari di equilibratura, la doppia accensione e, a differenza dei mono Yamaha e Honda, impiegava un sistema di lubrificazione a carter umido.
La Suzuki ha voluto stupire il mondo motociclistico con la DR “Big” 750 del 1988, la cui cilindrata due anni dopo è stata portata addirittura a 800 cm3, autentico record per i monocilindrici: questo monocilindrico, dotato di distribuzione monoalbero a quattro valvole e di due alberi ausiliari di equilibratura, aveva un alesaggio di 105 mm e una corsa di 90! Il pistone era forgiato e l’albero a gomito, composito come quelli di tutti gli altri grossi monocilindrici giapponesi, aveva l’asse d’accoppiamento che, dopo il montaggio con interferenza, veniva ulteriormente assicurato contro ogni possibilità di movimento mediante un cordoncino di saldatura! Non certo un esempio di bella meccanica, ma evidentemente funzionava…

 

La Kawasaki è arrivata nel settore dei grossi mono con un certo ritardo e l’esordio lo ha fatto con un modello che si distaccava dagli altri sotto due aspetti importanti: la distribuzione, che era bialbero, e il raffreddamento, che era ad acqua (con canna cilindro riportata in umido e dotata di bordino di appoggio superiore). La moto era la KLR 600, apparsa nel 1984. Come la Suzuki, anche la Kawasaki aveva optato per la lubrificazione a carter umido e per due alberi ausiliari, azionati da una catena. L’alesaggio era di 96 mm e la corsa di 78 mm. Queste misure sono state portate a 100 x 83 mm nella KL 650 del 1987.

Gli anni Novanta hanno visto l’adozione di cinque valvole e del raffreddamento ad acqua da parte della Yamaha, con cilindrata portata a 660 cm3 (alesaggio e corsa = 100 x 84 mm), e il passaggio a un solo albero ausiliario di equilibratura da parte della Kawasaki e della Suzuki (rispettivamente con la KLX 650 e con la DR 650), con conseguenti vantaggi in termini di compattezza del basamento e di semplicità costruttiva.

 

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