Moto non piaciute: Ducati, Guzzi, Yamaha...

Massimo Clarke
  • di Massimo Clarke
Errori commerciali o semplice sfortuna? Avanti rispetto ai tempi o in ritardo sulle esigenze? Moto che non hanno funzionato, seconda parte
  • Massimo Clarke
  • di Massimo Clarke
18 aprile 2021

Un vecchio adagio sostiene che non tutte le ciambelle riescono col buco. La saggezza popolare difficilmente sbaglia ed effettivamente anche in campo moto ogni tanto è possibile assistere ad autentici fiaschi. Eccone alcuni.

Al salone di Milano del 1969 la comparsa del Guzzi Nuovo Falcone ha avuto luogo abbastanza in sordina.
Per forza, l’attenzione degli appassionati era focalizzata sulle maximoto, delle quali stava iniziando il boom, e sulle sportive. Da tempo inoltre il pubblico italiano non mostrava più interesse per le grosse monocilindriche stradali e poi la nuova 500 di Mandello aveva prestazioni assai modeste e soprattutto era anonima, se non proprio brutta.

Era nata più che altro per rimpiazzare il vecchio e glorioso Falcone presso la Polizia Stradale e altri utilizzatori statali e comunali. All’atto pratico però non si può dire che questo obiettivo sia stato raggiunto con successo. La moto era pesante e lenta e molti rimpiangevano la vecchia 500.
Il motore, che adottava le misure classiche delle mezzo litro della Guzzi (88 x 82 mm), era sempre a cilindro orizzontale e con distribuzione ad aste e bilancieri. Non era più visibile però un grosso volano esterno.

Della versione civile di questo modello, commercializzata tra il 1971 e il 1974, sono stati costruiti circa 2.600 esemplari mentre per quella militare, grazie ad alcune corpose commesse, i numeri di produzione sono stati notevolmente più alti.

Il Nuovo Falcone era una moto grossa e pesante in rapporto ai cavalli a disposizione e con una estetica assolutamente anonima. D’altronde era nata pensando alle commesse militari. Il coperchio laterale sinistro celava il grosso volano, sempre ben visibile nelle precedenti 500 di Mandello
Il Nuovo Falcone era una moto grossa e pesante in rapporto ai cavalli a disposizione e con una estetica assolutamente anonima. D’altronde era nata pensando alle commesse militari. Il coperchio laterale sinistro celava il grosso volano, sempre ben visibile nelle precedenti 500 di Mandello

Nei primi anni Settanta la Laverda stava vivendo un periodo molto felice, con le sue grosse cilindrate stradali che si vendevano in numeri cospicui.
La direzione dell’azienda ha pensato allora di ampliare la gamma realizzando un modello “entrofuoristrada” azionato da un motore a due tempi di 250 cm3.

Si trattava del Chott, presentato nel 1973, che all’atto pratico si è rivelato valido più che altro per un tranquillo impiego motoalpinistico. L’estetica piuttosto anonima e le prestazioni non a livello con quelle della concorrenza hanno impedito a questo modello di ottenere un apprezzabile successo commerciale.

Una tecnica sicuramente “sana”, come nelle tradizioni della casa veneta, e soluzioni avanzate come l’inclinazione del cannotto di sterzo regolabile su tre posizioni e l’esteso impiego di leghe di magnesio non sono state sufficienti. Il motore, dalle misure caratteristiche perfettamente quadre (68 x 68 mm), nella prima versione erogava 25 CV a 7000 giri/min.

Attorno alla metà degli anni Settanta la Ducati ha trascorso un periodo non proprio felice. La 860 GT era brutta e non si vendeva.
La produzione dei gloriosi Scrambler era cessata alla fine del 1974 (ma alcune centinaia di moto sono state vendute in seguito per smaltire gli stock ancora in magazzino) e nessuna delle varie proposte relative a un nuovo modello in grado di sostituirli è stata ritenuta convincente.

A un certo punto la direzione della azienda ha deciso di puntare da un lato su nuovi modelli stradali di media cilindrata con due cilindri paralleli (autentica sciagura) e dall’altro su una 125 a due tempi da regolarità. Il successo di aziende come la KTM e la SWM in quest’ultimo emergente settore ha pesato molto su tale decisione. Si trattava di entrare in un settore estremamente specialistico, ben diverso da quello nel quale la casa bolognese e la sua rete di concessionari avevano sempre operato.
Alla fine dei conti il tentativo è risultato fallimentare.

Per migliorare la situazione la Ducati ha sviluppato dalla 125 Regolarità la Six Days, dalla estetica decisamente più aggressiva e moderna, dal motore con potenza aumentata e dal peso minore. In fin dei conti era abbastanza in linea con la concorrenza, ma ormai la frittata era fatta. Inoltre il marchio e la rete di vendita erano troppo legati alle sportive stradali
Per migliorare la situazione la Ducati ha sviluppato dalla 125 Regolarità la Six Days, dalla estetica decisamente più aggressiva e moderna, dal motore con potenza aumentata e dal peso minore. In fin dei conti era abbastanza in linea con la concorrenza, ma ormai la frittata era fatta. Inoltre il marchio e la rete di vendita erano troppo legati alle sportive stradali

Alla fine del 1974 la Ducati ha presentato la 125 Regolarità, azionata da un motore dalle misure caratteristiche perfettamente quadre (54 x 54 mm), dotato di un gruppo termico che ricordava molto, come aspetto, quello del famoso Sachs 6 marce. La potenza era di circa 22 cavalli a 9000 giri/min. La moto aveva un peso sensibilmente più elevato di quello della concorrenza e una estetica che, senza essere brutta, era ben poco intrigante. Di questo modello sono stati prodotti in tre anni circa 3.500 esemplari.

Vista la scarsa accoglienza riservata dal mercato alla 125 Regolarità, la Ducati ha ben presto rinnovato la sua monocilindrica a due tempi, dedicando particolare attenzione all’estetica. Nel 1977 ha così fatto la sua apparizione la Six Days, più leggera, con il motore più potente (25 cavalli a 10.250 giri/min) e dallo styling decisamente più moderno e accattivante.

Ormai però era tardi. Di questo modello sono state costruiti, nei due anni in cui è rimasto in produzione, poco meno di 1.500 esemplari.

Nel 1982 la Yamaha ha presentato una moto che sotto l’aspetto tecnico avrebbe meritato una sorte ben migliore di quella che in effetti ha avuto. Si trattava di una bicilindrica di 550 cm3 che presentava alcune caratteristiche largamente innovative ma che purtroppo aveva il grave difetto di essere brutta, quasi inguardabile…

Quando ha fatto la sua comparsa, la Yamaha XZ 550 poteva essere considerata a ragione un vero concentrato di tecnologia. Purtroppo tante novità tutte assieme forse sono controproducenti. E poi non erano in pochi a pensare che questa moto fosse decisamente brutta. Forse non avevano tutti i torti… Questo modello è comunque rimasto in produzione per due anni soltanto
Quando ha fatto la sua comparsa, la Yamaha XZ 550 poteva essere considerata a ragione un vero concentrato di tecnologia. Purtroppo tante novità tutte assieme forse sono controproducenti. E poi non erano in pochi a pensare che questa moto fosse decisamente brutta. Forse non avevano tutti i torti… Questo modello è comunque rimasto in produzione per due anni soltanto

Denominata XZ 550, questa moto era azionata da un motore raffreddato ad acqua con due cilindri a V di 70° e distribuzione bialbero a quattro valvole.
Le misure caratteristiche erano piuttosto radicali per la sua epoca, con un alesaggio di 80 mm abbinato a una corsa di 55 mm, e la potenza massima di 65 cavalli (piuttosto elevata in rapporto alla cilindrata, dato il frazionamento su due soli cilindri)) veniva ottenuta a un regime di 9.500 giri/min. Alla alimentazione provvedevano due carburatori Mikuni a flusso verticale, di tipo automobilistico, che nella prima versione hanno dato qualche problema.

La trasmissione finale era ad albero e coppia conica. Nella ciclistica spiccava la forcella anteriore con perno ruota “arretrato”. La moto, rimasta in produzione per un paio di anni soltanto, era vero un concentrato di tecnologia e di innovazioni ed è stato un peccato che questo tentativo coraggioso sia stato sfortunato…