Ducati 916 TEST Youngtimer: il mito degli anni 90

  • Voto di Moto.it 9 / 10
Tanti considerano la moto disegnata da Massimo Tamburini come la più bella sportiva del mondo. Voi cosa ne dite? Vi riproponiamo la sua prova grazie al lettore Luigi di Milano. Con noi anche Gix, che la provò in anteprima nel 1994
21 ottobre 2019

Dopo la scorpacciata estiva di maxienduro col Gix e Alberto Porta, tornano le sportive Youngtimer su Moto.it. Ma basta superbike giapponesi. Vi abbiamo parlato delle bellissime Honda RC30 e VTR SP1, di Yamaha R1 e Suzuki Hayabusa. Ora passiamo a due categorie di moto che ci fanno andare fuori di testa: le italiane da corsa e le due tempi  racing, delle belve da motomondiale immatricolate per circolare su strada.

Ducati 916, insieme alla Honda RC30, è considerata una delle sportive più belle e non degli anni 90, ma di sempre. Frutto della mano favolosa di Massimo Tamburini (LEGGI LA SUA INTERVISTA INTEGRALE DEL 2008), ma anche della maturità motociclistica raggiunta da Claudio Castiglioni.

Quasi tutti i nostri lettori ricorderanno il momento in cui hanno visto per la prima volta la Ducati 916. Svelata al Salone di Milano del 1993, la 916 lasciò tutti senza fiato. Un po’ perché allora non c’erano anticipazioni e foto rubate a rovinare il gusto del disvelo, un po’ perché la supersportiva della maturità Ducati di gestione Castiglioni era oggettivamente stupenda. Talmente bella da resistere praticamente immutata nell’estetica per otto anni.

Pensate che – ironia della sorte – avrebbe potuto essere molto diversa. Massimo Tamburini stava lavorando all’erede della 851 quando Honda presentò al Salone di Tokyo la sua NR750. Il designer romagnolo ne restò estremamente colpito, tanto da stracciare quanto fatto fino ad allora e ripartire da zero. E disegnare una linea, ma anche stilemi come i sottilissimi fari affiancati o gli scarichi sotto il codone, che hanno definito tutta una generazione di supersportive. E hanno fatto invecchiare di colpo tutta la concorrenza, perché non c’è stata rivale, almeno fino all’arrivo della Yamaha R1, che al suo cospetto non sembrasse grossa ed impacciata. Svelata al Salone di Milano del 1993, la 916 lasciò tutti senza fiato. Un po’ perché allora non c’erano anticipazioni e foto rubate a rovinare il gusto del disvelo, un po’ perché la supersportiva della maturità Ducati di gestione Castiglioni era oggettivamente stupenda. Talmente bella da resistere praticamente immutata nell’estetica per otto anni. Pensate che – ironia della sorte – avrebbe potuto essere molto diversa. Massimo Tamburini stava lavorando all’erede della 851 quando Honda presentò al Salone di Tokyo la sua NR750. Il designer romagnolo ne restò estremamente colpito, tanto da stracciare quanto fatto fino ad allora e ripartire da zero. E disegnare una linea, ma anche stilemi come i sottilissimi fari affiancati o gli scarichi sotto il codone, che hanno definito tutta una generazione di supersportive. E hanno fatto invecchiare di colpo tutta la concorrenza, perché non c’è stata rivale, almeno fino all’arrivo della Yamaha R1, che al suo cospetto non sembrasse grossa e impacciata.

Nel 2018 ha compiuto 25 anni. Sotto la carenatura pulsava un bicilindrico Desmoquattro evoluto rispetto alla precedente unità della 888 – bisognerà aspettare la 996R del 2001 per festeggiare l’arrivo del Testastretta, primo cambio generazionale motoristico nella storia delle Superbike Ducati – ma soprattutto una ciclistica che costituiva un salto quantico rispetto alla concorrenza, casalinga e straniera.
Forcellone monobraccio infulcrato nel telaio (con abbandono del precedente schema pivotless) dotato di reggisella alleggerito e scomponibile, sospensione posteriore con regolazione dell’altezza indipendente dall’interasse ammortizzatore, tre brevetti come il cannotto di sterzo regolabile tramite eccentrici, l’ammortizzatore di sterzo trasversale e il dado della ruota posteriore con fermaglio in acciaio.

Sportivamente parlando, la 916 è stata un mostro. Sei titoli in otto anni nelle sue varie versioni, ad opera di piloti come Fogarty, Corser e Bayliss, e tantissime vittorie di manche con loro e tanti altri, a partire da quel Pierfrancesco Chili che se ne innamorò a tal punto da non volerla abbandonare quando arrivò la 999, scatenando le ire della Casa madre. E senza contare, con un po’ di rimpianto, tutto quello che avrebbe potuto farci Giancarlo Falappa, che la 916 l’aveva praticamente tenuta a battesimo prima di quel malaugurato incidente ad Albacete che gli ha stroncato la carriera.

La 916 divenne poi 996 e 998, evoluta nel propulsore e con qualche sapiente ritocco nella ciclistica, ma restò sostanzialmente immutata. E uno dei segni della grandezza del design di Massimo Tamburini è – come abbiamo già detto in apertura – il mantenimento dell’estetica, a parte la chiusura delle prese d’aria della carenatura (996R, 2001).

Con la 916 è nata un’icona che ha influenzato tutta la produzione Ducati successiva, perché a parte quella 999 che non seppe mai conquistare davvero il cuore dei ducatisti, le famiglie Superbike successive le devono molto. Le due opere di Gianandrea Fabbro, la 1098 e la 1099 Panigale – e quindi, ovviamente, la Panigale V4 – recuperano dichiaratamente tantissimo in termini di estetica dalla 916, creando quell’ ”effetto 911” tanto ricercato quanto elusivo per Case e designer di tutto il mondo.

Fa davvero impressione pensare che sono passati 25 anni da quando abbiamo visto la 916 per la prima volta. Da allora il mondo del motociclismo è cambiato molto profondamente nella sostanza, nell’estetica, nelle abitudini e nei gusti di noi motociclisti. Quella che non è cambiata è la bellezza della 916. Che – oggi come allora – evoca come nessun’altra moto il concetto di perfezione.
 

Pro e contro

Pro

  • Bellissima ancora oggi, investimento sicuro, ha tanto carattere ed è una vera Ducati su strada

Contro

  • Prezzi alti, manutenzione costosa, delicata se usata tanto in pista, non è la moto di tutti i giorni

Maggiori info

Tester: Andrea Perfetti
Casco: Arai RX-7V Replica Kevin Schwantz
Tuta Dainese
Guanti Dainese
Stivali Dainese


Video, foto, editing: Massimo Di Trapani

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